Ho finito di leggere da
poco “Il bambino che parlava con la luce”, libro di M. Arduino, edito da
Einaudi.
La nota che scrivo non
vuole assolutamente essere una recensione, quanto meno nel senso classico del
termine: trovo giusto affidarla, semmai, a persone più autorevoli e
competenti... Mi accontenterò, in questa sede, di enunciare alcune modeste
riflessioni e Maurizio Arduino perdonerà, spero, la scelta di attestarmi su un
profilo più basso, che peraltro non riduce affatto la mia partecipazione
emotiva alla (anzi “alle”) storia che ha raccontato.
Dovessi riassumere in
una sola parola il senso del libro sceglierei, quasi sicuramente, di utilizzare
il sostantivo “utile”. Dopo le chiassose sbornie editoriali delle ultime
settimane, in cui una questione delicata come il “dopo di noi” è stata
ricondotta all’approdo di fantastiche Disneyland allestite da esperti di
architettura e domotica (notoriamente tra i massimi conoscitori di autismo…),
cessa finalmente il frastuono e si abbassano le luci.
Si torna con i piedi per
terra, non c’è più spazio per l’astrazione: i protagonisti sono gli autistici
in carne e ossa, che conosciamo quotidianamente, con il loro carico di
problematicità, con la difficoltà di trovare soluzioni in grado di attenuare,
nei limiti del possibile, l’ansia e la sofferenza di cui soffrono. Le stesse
dei propri cari.
La drammatica sequenza
di eventi che segna fin da subito la vita delle persone autistiche pone
(impone?) ai soggetti che entrano in relazione con loro - familiari, insegnanti,
operatori - inquietanti interrogativi sul “che fare”, a fronte di una sfida
certamente complessa.
[...]
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