Chiunque avesse
voglia di dare un’occhiata alle rappresentazioni grafiche che Eurostat e tutti
i siti che in UE si occupano di istruzione producono, si renderebbe conto che
l’unico tema su cui il nostro paese dimostra una straordinaria superiorità
rispetto a tutti gli altri 27 è l’inclusione della diversabilità. Ovunque
esistono classi e scuole speciali per gli Special Educational Needs, come
vengono chiamati genericamente gli studenti che abbiano Bisogni Educativi
Speciali. Nel
2012, secondo i dati Eurostat, in Italia su 7,326,567 studenti, il 2,3% aveva
il sostegno o aveva disturbi dell’apprendimento, di cui solo lo 0.01% - pari a
693 studenti – frequentava scuole speciali. Nessuno classi speciali.
Pochissimi, se compariamo i dati italiani con quelli degli altri paesi. In
Germania, su 8,236,221, il 5,8% aveva bisogni educativi speciali, di cui il
4,8% frequentava scuole speciali, pari a 399.229 studenti. Nessuno classi
speciali. In Francia, su 12.542.100 studenti, del 2,8% che rivelavano bisogni
educativi speciali, lo 0,6% (pari a 75.504 studenti) frequentava scuole
speciali e l’1,3% - pari a 161.351 studenti – classi speciali; in Finlandia, su
una popolazione di 559,379 studenti, l’8,1% evidenziava bisogni educativi
speciali, l’1,2% frequentava scuole speciali e il 2,6% classi speciali. Infine
l’Inghilterra: su 8.033.690 studenti, il 2,8% evidenziava bisogni educativi
speciali, l’1,2% frequentava scuole speciali; lo 0,2% - pari a oltre 16mila
studenti – classi speciali.
Con ogni evidenza,
l’inclusione è la nostra specialità, almeno sulla carta. Altro sono gli abusi e
le interpretazioni che ne sono state fatte; ma è certo che dalla legge 517/77
alla 104/92 la normativa italiana è stata all’avanguardia, configurando concretamente
un modello che ottempera perfettamente a ciò che viene stabilito dall’art. 3
della Costituzione: il principio di uguaglianza tra tutti i cittadini, in una
scuola che, come recita l’incipit dell’art. 34, è “aperta a tutti”. È accaduto,
però, che tutta la normativa, che pone il sistema scolastico italiano
all’avanguardia nel mondo in tema di inclusione, sia spesso rimasta lettera
morta. In origine, infatti, con la L.517/77, l’integrazione a favore degli
alunni “portatori di handicap” (art.2) doveva essere attuata attraverso la
prestazione di “insegnanti specializzati”. Si sarebbe trattato di personale di
ruolo con preparazione specifica e formazione quindi superiore rispetto ai
colleghi curricolari. L’esosità dei corsi e una certa incuria sul tema ha fatto
sì che abbiano frequentato corsi (circa 3.000 euro quelli organizzati dalle
università) solo i docenti già abilitati in una o più discipline, in grado di
pagare. Il tempo e la consuetudine ha pertanto traslato la figura del “docente
specializzato” in quella – molto più fluttuante – del “docente di sostegno”.
Colui, cioè, che si presta in questa veste all’organizzazione dell’istituto per
svolgere, oltre che reale attività di sostegno, anche attività ulteriori, come
– ad esempio – supplenze su altre classi; e che sia stato inserito in questa
arbitraria definizione chiunque – a prescindere da una qualifica specifica –
compresi docenti precari, perdenti posto, ecc; il “sostegno” è divenuto nel
tempo il refugium peccatorum al quale accedere, in caso di difficoltà, senza
alcuna preparazione specifica.
La soppressione
definitiva delle aree di specializzazione (motoria, scientifica, umanistica,
tecnica) ha fatto il resto: cittadini di serie B, gli studenti con disabilità
sono stati spesso seguiti da figure generiche, non in grado di fornire un
sostegno competente, come pure aveva sostenuto la sentenza n.245 del 26 gennaio
2001 del Consiglio di Stato. La necessità di favorire la mobilità dei docenti
ha prevalso rispetto alla centralità del soggetto in apprendimento.
Tra i tanti temi
che dovrebbero sostanziare la “riforma” che verrà – che questo Governo, tanto
querulo e generosissimo di dichiarazioni generiche (tutte rigorosamente
differenti, a seconda di chi le pronunci: Renzi, Giannini, Faraone, Puglisi)
quanto blindatissimo su quelli che saranno i reali contenuti dei provvedimenti
che verranno (al punto da dare la chiara impressione di non saperlo nemmeno lui
stesso) – c’è anche la riforma del sostegno. Fatto sorprendente (privo dei
requisiti di necessità ed urgenza che darebbero la possibilità di inserire –
come hanno dichiarato – anche questo capitolo in un decreto legge); ma tanto
più sorprendente perché l’intervento è previsto sulla legislazione unanimemente
considerata la più avanzata del mondo.
La riforma consisterebbe
in una separazione delle carriere: il sottosegretario Faraone, deputato ad
intervenire sulla tematica, ha affermato che gli insegnanti di sostegno
"saranno più preparati e più formati sulle singole patologie". Ora
"non c'è una specializzazione sulla singola patologia. Per questo vogliamo
fare anche delle scuole di formazioni specifiche." Si determinerebbe,
dunque, un approccio interpretativo della disabilità come fenomeno
esclusivamente medico, con una forte considerazione della disabilità come divergenza
dalla normalità fisica e psichica, in controtendenza con i più moderni e
convincenti studi di settore e della stessa OMS. Faraone ha inoltre affermato
la volontà di trasformare l'insegnamento di sostegno in una vera e propria
vocazione, non più trampolino "per diventare insegnanti di ruolo, senza
che si sia coltivata una specificità". La proposta prevederebbe
l’obbligo di somministrazione di farmaci da parte delle scuole; ma –
soprattutto – la modifica della figura dell'insegnante di sostegno, che diventa
lo specialista delle singole patologie e non più docente abilitato
all'insegnamento curricolare in possesso della specializzazione. Si tratterebbe
di un’interpretazione decisamente anacronistica rispetto alle acquisizioni cui
la moderna pedagogia ha informato il senso del modello italiano
dell’inclusione, che ha previsto da decenni la contitolarità sulla classe e la
cooperazione tra insegnanti curriculari e docenti di sostegno che – viceversa –
verrebbe enormemente alterata dalla determinazione di ruoli separati. Senza
contare che la proposta non prevederebbe alcun tipo di formazione specifica
sull’unico elemento realmente dirimente, la formazione su diversi metodi e
approcci di insegnamento (utilissimi con tutti gli studenti), inclusi strumenti
e modalità di comunicazione per determinate tipologie di disabilità. Si
snaturerebbe, dunque, la naturale funzione della scuola – trasformata da un
simile provvedimento in una succursale dell’ospedale – e quella del docente,
pur sempre – qualsiasi siano le caratteristiche dei suoi studenti –
professionista dell’apprendimento/insegnamento. Amplificando il senso di una
“diversità” che è esattamente quello che la normativa italiana ha escluso nelle
elaborazioni anche successive alla norma del ’77.
Riferendosi alla
possibilità che un docente di sostegno possa – dopo 5 anni di esercizio del
ruolo – passare ad insegnare una disciplina, se in possesso della relativa
abilitazione, Faraone l’ha considerata una sorta di furbesco trampolino di
lancio per ambire a mete più appetibili (quali? perché?); si tratta – semmai –
di una opportunità significativa per ciascuna scuola di docenti curricolari che
abbiano una formazione ed un’esperienza significativa nel campo del sostegno;
il che rappresenta un valore, considerando anche l’esclusione del sostegno per
il Dsa (disturbo specifico dell’apprendimento: disgrafia, dislessia,
discalculia) e per i Bes (bisogni educativi speciali), provvedimento
evidentemente giustificato dal risparmio economico, e non dalla centralità del
soggetto in apprendimento.
Tra le tante proteste che si sono avanzate, mi
piace segnalare quella della pagina FB Insegnanti di Sostegno, sostenuta da
5.000 membri, che presto pubblicherà un proprio comunicato
stampa
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