fonte redattoresociale.it
Non profit e
terzo settore tornano protagonisti, ma le politiche pubbliche ancora non
sfondano: il mondo del sociale si lascia alle spalle un altro, ennesimo anno
colmo di difficoltà e di problemi, resi ancor più pesanti dalla loro ormai
conclamata cronicità e dalla lentezza – per molti versi pachidermica – con cui
si è in generale provato ad affrontarli. Le conseguenze della crisi
economica pesano come macigni sulla parte più fragile della popolazione, ma le
politiche pubbliche per il sostegno e l’aiuto, ogni anno che passa, arrancano
sempre di più. Si vive nell’illusione che quel poco che si fa possa bastare
per invertire la rotta, schiacciati sull’argomento – ed è il ritornello di
sempre – che “la coperta è troppo corta” e che non ci si possono
permettere delle “fughe in avanti”. E il settore delle politiche sociali, che vive da sempre con risorse pubbliche largamente
sottostimate rispetto ai bisogni, rimane di fatto fermo al palo.
Abbiamo
vissuto altri 12 mesi senza neppure l’ombra di una riforma strutturale, senza un convincente piano nazionale
contro la povertà, senza un sostegno alla non autosufficienza che andasse oltre
il minimo sindacale, senza neppure quelle risposte che le persone con
disabilità attendono da tempo e che almeno per decenza sarebbe ora di dare (ad
iniziare dall’aggiornamento dei Lea, livelli essenziali di assistenza, e dalla
revisione di un nomenclatore tariffario degli ausili e protesi fermo all’età
della pietra).
Certo,
nel corso del 2014 è stato avviato e sta pian piano prendendo corpo e forma un
provvedimento importante e cruciale come la riforma del terzo settore, che ingloba dentro di sé l’associazionismo e il
volontariato, l’impresa sociale e il servizio civile, e che punta a liberare
energie positive per il futuro, anche in un’ottica di crescita e rilancio
dell’intero paese. Cosa buona e giusta, dopo decenni di attesa, ma che prenderà
comunque il suo tempo per l’applicazione – la dinamica sarà di medio periodo –
e che in
ogni caso non comporterà un intervento diretto di “politica sociale” nei
confronti delle persone in condizione di maggiore fragilità sociale.
Nello
specifico, il racconto del 2014 parte con la fine prematura - era metà febbraio
- dell’esperienza del governo di Enrico Letta, che in tutto il suo mandato aveva mantenuto un’attenzione flebile e sporadica ai temi
del sociale, pur lasciando in eredità degli stanziamenti per il 2014
in lieve crescita rispetto agli anni del “minimo storico” che lo avevano
preceduto. Nei dieci mesi seguenti è toccato a Matteo Renzi indirizzare le
scelte e le politiche, e i fatti dimostrano che – come già in passato –
lo sforzo maggiore per aiutare “chi non ce la fa” è stato concentrato
soprattutto sugli ammortizzatori sociali legati al lavoro, poi ampliati e
sostenuti dal bonus di 80 euro mensiliconcesso a partire da maggio ai
lavoratori con un reddito compreso fra 8 mila e 24 mila euro annui: una misura,
poi resa stabile a fine anno, pensata, voluta e realizzata con altre finalità
rispetto al sostegno a chi vive situazioni di povertà e/o fragilità conclamata
(e infatti due terzi della somma stanziata sono andati ai redditi
medio-alti, e cioè a coloro che in proporzione spendono meno rispetto alle
persone in povertà).
Con i bonus
il governo Renzi (come altri esecutivi in passato) dimostra
di volerci andare a nozze, se è vero che la legge di stabilità per il 2015
assegna una cospicua quota di risorse ad altri due bonus (bonus bebé per i
nuovi nati e bonus acquisti per le famiglie numerose): se consideriamo che
anche sulla lotta alla povertà il solo strumento a regime attualmente in campo
è la vecchia e criticata “carta acquisti” (social card) – cioè una mera
erogazione monetaria - ne emerge un quadro che vede questa tipologia
di intervento diventare quasi uno strumento prediletto. Alla faccia delle tante critiche che da
sempre gli addetti ai lavori gli indirizzano. Giudizio troppo ingeneroso?
Forse, ma gli indizi ci sono tutti: anche perché laddove si poteva osare
di più e trasformare un bonus già esistente in una misura più ampia di
inclusione attiva (il riferimento è alla sperimentazione della “nuova
social card” contro la povertà) i risultati ottenuti nel corso dell’anno
sono stati tutt’altro che trascendentali.
Con
riferimento ai fondi sociali propriamente detti, invece, nel corso del 2014
sono arrivate alle regioni (per essere poi trasformate in servizi diretti ai
cittadini) le risorse stanziate nella legge di stabilità del governo Letta (317
milioni del Fondo nazionale politiche sociali e 350 milioni del Fondo non
autosufficienza), oltre alle cifre riferite al 2013 che incredibilmente
(potenza della burocrazia) nel corso di quell’anno non si era riusciti a
ripartire. Per il 2015 le disponibilità economiche decise dal
governo saranno maggiori: la somma dei due fondi appena citati
passa da 667 milioni dell’anno che si chiude a 700 milioni di quello che si
apre, ai quali si aggiungono altri 100 milioni destinati per il 2015 ai servizi
per la prima infanzia (gli asili nido). Bilancio con il segno più,
dunque, ma quanta fatica per ottenerlo! (e quante proteste, comprese quelle ormai immancabili delle persone disabili
sul fondo non autosufficienza).
Come già
detto, l’ambito sul quale il governo ha spinto maggiormente è stato
quello della riforma del terzo settore, che mira a cambiare le regole del
gioco e a rinnovare – portando la normativa al passo con i tempi – un ambito
dalle grandi possibilità di sviluppo. Mesi di confronto e di dibattito, una
consultazione pubblica, un disegno di legge delega ora in discussione in
Parlamento per una riforma che il mondo del non profit chiede da tempo e che
mai come ora pare davvero possa diventare realtà.
In secondo
luogo, ma le cose sono collegate, il governo può mostrare l’impegno sul
versante del cinque per mille, finora azzoppato dai tetti di
spesa posti via via dai vari esecutivi e che ritorna ora davvero pieno (a quota
500 milioni) con la legge di stabilità per il 2015. Più zoppicante il cammino
del servizio civile, ribattezzato “universale” nella visione
renziana, che ha ripreso a camminare dopo un lungo periodo di stasi, con una
prognosi che per il 2015 che si annuncia positiva.
Alti e bassi,
dunque, nel 2014 che si chiude. “L’anno più importante è il prossimo, è
il 2015”, dice il premier Matteo Renzi riferendosi alla crescita
economica e all’uscita del tunnel della recessione. Considerazione valida anche
per il settore sociale. Il 2014, nonostante le speranze iniziali, non è
stato l’anno della svolta. Dipenderà anche da Renzi e dal suo governo
farlo diventare – a posteriori – l’anno che ha immediatamente preceduto quello
della svolta.
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