Pubblico volentieri un secondo contributo del dottor Francesco Fera (già autore di un intervento che potete trovare all'interno nel blog). Personalmente lo giudico molto interessante e, mi sia consentito, importante. Ringrazio di cuore l'Autore per la preziosa opportunità.
[...]
L'autoreferenzialità che tu molto opportunamente segnali, Gianfranco, permette, tra le altre cose,
di arroccarsi su posizioni
di sicurezza in senso
lato, ma
se non c'è scambio
disinteressato di esperienze
e conoscenze, convinzioni e dubbi, aspettative e rinunce, gratificazioni
e sconfitte,
non credo ci sia speranza alcuna di crescita.
Se non si rischia
e ci si mette
in gioco … è un
posizionarsi per presidiare
le proprie “certezze” (?) in sicurezza senza farsi
male.
Non condivido
molte cose. Comincio con i
limiti della medicina,
che si occupa, dovrebbe
occuparsi, se ne
occupa poco, della condizione
autistica, in relazione
ai fattori di rischio,
alla diagnosi precoce, al
trattamento e alla
riabilitazione. Sono fermo
all'inquadramento che ne
ha fatto la Frith
qualche anno fa.
Questo riferimento mi
è utile per provare a ragionare
su quanto tu scrivi
in merito alla inadeguatezza
del funzionamento della
comunicazione e della
relazionalità e, in
senso più ampio, della
socialità caratterizzanti
la condizione autistica.
Se
non ricordo male quanto scrive la Frith, nelle persone affette da disturbo
autistico sembra non funzionare l'interesse e l'affettività verso il mondo,
verso gli altri, non so se verso il futuro. Se questo funzionamento è
inadeguato, quali possibilità si hanno per supportare la strutturazione della
dimensione autostima e di quant'altro è necessario per permettere di costruire
un percorso di autonomia ed autosufficienza, avere interesse a mantenerlo,
potenziarlo e non perderlo?
Erano
e sono le mie perplessità di fondo nei confronti della metodologia di
intervento comportamentista, che tanto in auge era qualche hanno fa, sostenuta
anche dalla Associazione dei familiari, ANGSA se non ricordo male. Si impara a
fare qualcosa se c'è un investimento affettivo personale. Altrimenti si implementano automi che,
scaricate le batterie, si fermano. Meglio questo che niente, questo insieme ad
altro, certo! Ma questo è un nodo, ha ricadute operative, in merito al quale ci
si poteva sbilanciare oltre l'impostazione procedurale asettica, divenuta ormai
burocratica vulgata corrente.
E
quali competenze sono necessarie per dare supporto adeguato? Per sostituirsi ai
genitori e vicariare la loro relazione affettiva, educare, seguirne non uno ma
più, presidiarne la tutela fisica, avere risorse sufficienti e di riserva per
non vivere svuotati al fuori dalla relazione terapeutica, per non perdere la
motivazione alla relazione di aiuto, per
non diventare custodi, predatori, aguzzini, carnefici?
Non
ti pare che chi dà ostentazione del proprio sapere dovrebbe farsene carico e
mettersi in gioco per affrontare questi nodi?
Il
mestiere di genitore è il più difficile: più è forte il legame più è complicato
il percorso che porta al taglio del cordone ombelicale. Credo si tratti, il più delle volte, di un taglio
subito.
Anche
educare è un mestiere difficile, anche
con persone normodotate. Che cosa
possono mettere in gioco gli operatori
di prima linea per poter sostenere entrambi i compiti con efficacia? Hanno alle
spalle una formazione ed un training specialistico adeguato di natura
psicologica e pedagogica? Hanno
conoscenze teoriche sufficienti per affrontarli e portarli a termine?
Hanno un addestramento sufficiente per stare “a fianco” senza farsi male, fare
male, prevenire che gli altri si facciano male? Esistono scuole di alta
formazione che formano e ricercano su tali tematiche?
Avendo
utilizzato il termine ricerca, vengo al secondo punto. Invochi, giustamente, interventi fondati su evidenze,
vale a dire su prove scientifiche di efficacia.
In
ambito clinico la produzione di evidenze scientifiche è qualcosa di
metodologicamente strutturato grazie ad una consolidata ricerca applicata in
relazione alla efficacia dei trattamenti farmacologici, degli screening, delle
procedure diagnostiche. Di recente, il tentativo di estenderla anche agli interventi riabilitativi ed agli
strumenti valutativi, con risultati ancora da consolidare. Di difficile
estensione alle discipline psichiatriche, i cui interventi si caratterizzano
per essere non solo di natura farmacologica,
“ per fortuna!!!” aggiungo.
Nell'ambito
degli interventi di competenza psicologica, pedagogica e sociale come si
producono le evidenze? Come sono accessibili? L'accessibilità è pari a quella
disponibile in ambito medico?
Sono
questi i punti di domanda che pongo agli esperti. È troppo? È niente?
3 commenti:
I temi posti dal dottor Fera sono indubbiamente stimolanti e"costringono" noi genitori, ma io credo che lo stesso valga per associazioni e operatori del settore, a una seria riflessione. Ho molto apprezzato il carattere scientifico di alcuni passaggi. Fabrizio
Desidero ringraziare il dottor Fera per i suoi due interventi, importanti per la metodologia che li sottende, e per i riferimenti bibliografici forniti a tutti quelli che, in varia misura e da prospettive diverse, si stanno confrontando su questo blog di Gianfranco che ne risulta sicuramente arricchito.
Da mamma di un adulto autistico dico grazie al dottor Fera. Lui rappresenta un'eccezione, i medici - la gran parte - continuano a pensare che l'autismo si affronta solo con gli strumenti della malattia mentale. E per quanto riguarda i tecnici, che curano la parte educativa, raramente li ho sentiti prendere pubblicamente le distanze da questa becera interpretazione. Le associazioni hanno un progetto? Se si mi piacerebbe sapere quale. Silvana, dalla provincia di Arezzo
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