Ricevo e pubblico volentieri.
I giorni dei ponti di primavera, coincidenti con la festa di san
Giuseppe Cottolengo, hanno spinto molti a riscoprirsi turisti nella propria
città e a visitare una realtà nota, ma non quanto merita, ai torinesi: la
Piccola Casa della Divina Provvidenza. Una città nella città in cui si entra inizialmente con un po’di circospezione pensando di trovarsi attorniati solo da persone devote e contemplative.
Un volontario
laico guida il gruppo, mostrando alcuni dei tanti padiglioni che compongono la
struttura e cedendo spesso la parola ai responsabili dei vari settori:
religiosi di tutte le età, suore energiche in scarpe da ginnastica e sacerdoti
dai capelli lunghi, dai modi diretti e concreti.
Percorrendo il
giardino, dove glicini e alberi si alternano a siepi e aiuole d’erba, che
qualche ospite va a raccogliere “per gli uccelli”, non si fa fatica a ricordare
che quella zona, il Valdocco, era aperta campagna quando nella prima metà
dell’Ottocento il tutto ha avuto inizio.
Giuseppe Cottolengo
traslocava allora dalle due stanzette della casa detta della Volta Rossa,
vicino alla chiesa del Corpus Domini in cui era viceparroco e dove aveva
conosciuto una realtà fatta di povertà, stenti, emarginazione di tanti
piemontesi alle prese con una situazione sociale peggiore di quella degli
extracomunitari odierni.
Se allora l’emergenza
era legata alla malattia e alle cure sanitarie inesistenti per i meno abbienti,
successivamente tra quelle mura si inizia a combattere altre difficoltà: la disabilità fisica e mentale, la solitudine
e l’abbandono.
Appena entrati si
viene catapultati in un percorso che vuole spiegare le esperienze sensoriali provate
da chi è autistico nei momenti di crisi: una cacofonia di suoni che si
sovrappongono e si accavallano e rendono un semplice ambiente domestico peggio
di un’officina meccanica. Ci viene spiegato che il percorso serve a mostrare
agli allievi normodotati della scuola elementare e media cosa provano in certi
momenti i loro numerosi compagni autistici.
Nel padiglione
detto degli “Angeli custodi” ci sono
disabili, inseriti nella struttura per l’impossibilità delle famiglie di
occuparsi di loro quando erano bambini, ormai invecchiati ma con gli stessi atteggiamenti di allora. Il down anziano, che
incuriosito ci viene a vedere, tiene in mano un coniglio di pezza a cui succhia di tanto in tanto le orecchie. La
suora lo tratta con affetto e ci spiega l’utilità dei loro laboratori di
motricità fine finalizzati a mantenere la mobilità degli arti superiori
necessaria all’autonomia delle persone nella cura di se stesse nelle attività
quotidiane.
Ormai nei
padiglioni non vivono più disabili giovani, che ospiti in comunità e centri
diurni frequentano come esterni i
laboratori, la piscina e la palestra, ma permangono le persone con disabilità
fisiche gravi, presenti nella struttura da più di cinquant’anni .
Ovunque un clima di
serenità e di amicizia tra
religiosi, volontari e ospiti trattati con un rispetto e calore,
senza che venga intaccata la loro dignità o venga fatto pesare ciò che si fa
per loro. Colpiscono l’organizzazione professionale, lo scopo chiaro e mirato
delle attività, sia pratiche sia legate alla socializzazione, come ci spiega la
suora giovane incaricata esclusivamente di dialogare con gli anziani della casa
di riposo.
Il percorso
termina nella chiesa con una sosta nella cappella dove è sepolto il santo;
sorprendente ma condiviso è il senso di pace che si prova in quel luogo dove
c’è chi è stato il motore pulsante di tutto ciò che gli ruota attorno… o forse
lo è ancora.
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