sabato 4 maggio 2013

UNA VISITA AL COTTOLENGO


Ricevo e pubblico volentieri.

I giorni dei ponti di primavera, coincidenti con la festa di san Giuseppe Cottolengo, hanno spinto molti a riscoprirsi turisti nella propria città e a visitare una realtà nota, ma non quanto merita, ai torinesi: la Piccola Casa della Divina Provvidenza. Una città nella città in cui si entra inizialmente con un po’di circospezione pensando di trovarsi attorniati solo da persone devote e contemplative.      

Un volontario laico guida il gruppo, mostrando alcuni dei tanti padiglioni che compongono la struttura e cedendo spesso la parola ai responsabili dei vari settori: religiosi di tutte le età, suore energiche in scarpe da ginnastica e sacerdoti dai capelli lunghi, dai modi diretti e concreti.
Percorrendo il giardino, dove glicini e alberi si alternano a siepi e aiuole d’erba, che qualche ospite va a raccogliere “per gli uccelli”, non si fa fatica a ricordare che quella zona, il Valdocco, era aperta campagna quando nella prima metà dell’Ottocento il tutto ha avuto inizio. 
Giuseppe Cottolengo traslocava allora dalle due stanzette della casa detta della Volta Rossa, vicino alla chiesa del Corpus Domini in cui era viceparroco e dove aveva conosciuto una realtà fatta di povertà, stenti, emarginazione di tanti piemontesi alle prese con una situazione sociale peggiore di quella degli extracomunitari odierni.
Se allora l’emergenza era legata alla malattia e alle cure sanitarie inesistenti per i meno abbienti, successivamente tra quelle mura si inizia a combattere altre difficoltà:  la disabilità fisica e mentale, la solitudine e l’abbandono.

Appena entrati si viene catapultati in un percorso che vuole spiegare le esperienze sensoriali provate da chi è autistico nei momenti di crisi: una cacofonia di suoni che si sovrappongono e si accavallano e rendono un semplice ambiente domestico peggio di un’officina meccanica. Ci viene spiegato che il percorso serve a mostrare agli allievi normodotati della scuola elementare e media cosa provano in certi momenti i loro numerosi compagni autistici.
Nel padiglione detto degli “Angeli custodi” ci sono  disabili, inseriti nella struttura per l’impossibilità delle famiglie di occuparsi di loro quando erano bambini, ormai invecchiati ma con gli stessi  atteggiamenti di allora. Il down anziano, che incuriosito ci viene a vedere, tiene in mano un coniglio di pezza a cui  succhia di tanto in tanto le orecchie. La suora lo tratta con affetto e ci spiega l’utilità dei loro laboratori di motricità fine finalizzati a mantenere la mobilità degli arti superiori necessaria all’autonomia delle persone nella cura di se stesse nelle attività quotidiane.
Ormai nei padiglioni non vivono più disabili giovani, che ospiti in comunità e centri diurni   frequentano come esterni i laboratori, la piscina e la palestra, ma permangono le persone con disabilità fisiche gravi, presenti nella struttura da più di cinquant’anni .
Ovunque un clima di serenità e di amicizia tra  religiosi,  volontari e  ospiti trattati con un rispetto e calore, senza che venga intaccata la loro dignità o venga fatto pesare ciò che si fa per loro. Colpiscono l’organizzazione professionale, lo scopo chiaro e mirato delle attività, sia pratiche sia legate alla socializzazione, come ci spiega la suora giovane incaricata esclusivamente di dialogare con gli anziani della casa di riposo.

Il percorso termina nella chiesa con una sosta nella cappella dove è sepolto il santo; sorprendente ma condiviso è il senso di pace che si prova in quel luogo dove c’è chi è stato il motore pulsante di tutto ciò che gli ruota attorno… o forse lo è ancora.

Adelaide Gallo    

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