Perché parlare del 25 aprile due giorni dopo? Per
non cristallizzare questa ricorrenza in un archivio storico da cui
estrarla solo periodicamente e darle invece il respiro e il rilievo che merita la sua innegabile attualità.
Come non riconoscerle tale caratteristica in un momento in cui si torna
a parlare a gran voce di democrazia diretta e di partecipazione? Come non
soffermarsi a riflettere sul suo impegno a superare le divergenze ideologiche
per creare un fronte comune efficace nella lotta contro il potente nemico
nazifascista?
Non può che lasciare perplessi il fatto che proprio chi teorizza un
allargamento della base politica e un coinvolgimento dei cittadini comuni non voglia poi riconoscere la portata di
quest’evento e si abbandoni a slogan ad effetto sulla “morte del 25 aprile”,
pur di contrapporsi alla “casta” dei politici che la celebrano. Forse perché la
Resistenza rende ancora tangibile la forza
della lotta a un populismo autoritario, affermatosi negli anni ’20 e non tanto
diverso da quello che si sta provando a mettere in piedi attualmente?
Personalmente ritengo questa ricorrenza non solo un momento di
riflessione su una pagina collettiva di storia nazionale: è anche l’occasione per sfogliare l’album di famiglia
e rivedere la foto di mio padre ragazzo con il fazzoletto rosso al collo
(colore pur non particolarmente amato) e il giaccone di pelliccia sulle spalle,
lo sguardo fiero di chi aveva fatto una scelta di campo e viveva sulle colline
del Roero scene di guerra su cui in seguito preferiva non ritornare.
Scelta, quest’ultima, dettata forse dal suo carattere schivo, lontano
dalla retorica e dal protagonismo di tanti, magari schierati dalla parte
opposta per tutto il ventennio e saliti
in ultimo sul carro dei vincitori.
Scelta che ammetteva talvolta eccezioni
saltuarie e lasciava trapelare racconti di rastrellamenti e di rappresaglie,
scene collettive, mai individuali, che mettevano in risalto la paura e le
difficoltà di un paese disorientato, stretto intorno ai suoi giovani.
Come priva di retorica è la mia letteratura preferita sull’argomento:
quella di Fenoglio del “Partigiano Johnny e dei
“Ventitré giorni della città di Alba”, quella di Calvino del “Sentiero dei nidi di ragno”. Autori che hanno
raccontato la lotta partigiana facendo sentire la fame e il freddo, la sete e
la fatica, la puzza e la rabbia, le difficoltà e le contraddizioni dei
partigiani arrampicati sulle colline e sulle montagne, nei casolari abbandonati
e nei boschi di rovi dove si sentiva “fischiare il vento e soffiare la bufera”
più che cantare gioiosamente “bella ciao”.
E spero di non mettere retorica
nelle mie parole nel dire che oggi c’è più che mai bisogno di ricordare queste
pagine di storia nazionale che vanno lette come un esempio di superamento di
divisioni ideologiche al fine di coalizzare le forze dei vari schieramenti
politici, ricostituitisi nella clandestinità, contro il nemico nazifascista.
C’è più
che mai bisogno di non dimenticare l’importante esempio di collaborazione tra
lavoratori e combattenti avvenuto nelle
fabbriche di tante città del Settentrione dove gli operai con azioni di sciopero, boicottaggio e
resistenza hanno messo in difficoltà i
Tedeschi facendo fronte comune con i partigiani e insieme hanno combattuto nel Nord d’Italia liberando
le principali città in quell’aprile di 68 anni fa, prima ancora dell’arrivo
degli Alleati.
Cosa rimane ora di quei momenti?
Già Calamandrei solo dieci anni dopo
constatava “ci si guarda intorno e si sente un che di vuoto, un che di amaro. Sono
tornate tante cose comode che avevamo perduto, ma quello che di vivo, di nuovo,
di giovanile, di fresco, di umano c’era allora nei cuori e nell’aria oggi non
c’è più”.
Saluto mia figlia che sta
andando in piscina dove fa l’istruttrice
e le chiedo se sa chi sia “Ferruccio Parri” cui essa è dedicata. Quando spiego
che si trattava di una delle figure più rappresentative della Resistenza
italiana la sento dire “…e gli hanno
dedicato una piscina?”
Già, anche questo è il 25
aprile.
Adelaide Gallo
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