martedì 23 luglio 2013

L'OPINIONE

Pubblico volentieri un secondo contributo del dottor Francesco Fera (già autore di un intervento che potete trovare all'interno nel blog). Personalmente lo giudico molto interessante e, mi sia consentito, importante. Ringrazio di cuore l'Autore per la preziosa opportunità.

[...]
L'autoreferenzialità che tu molto opportunamente segnali, Gianfranco, permette, tra le altre cose, di arroccarsi su posizioni di sicurezza in senso lato,  ma se non c'è scambio disinteressato di esperienze e conoscenze,  convinzioni e dubbi, aspettative e rinunce, gratificazioni e sconfitte,  non credo ci sia speranza alcuna di crescita. Se non si rischia e ci si mette in gioco … è un posizionarsi per presidiare le proprie “certezze” (?) in sicurezza senza farsi male.
Non condivido molte cose. Comincio con i limiti della medicina, che si occupa, dovrebbe occuparsi, se ne occupa poco, della condizione autistica, in relazione ai fattori di rischio, alla diagnosi precoce, al trattamento e alla riabilitazione. Sono fermo all'inquadramento che ne ha fatto la Frith qualche anno fa.

Questo riferimento mi è utile per provare a ragionare su quanto tu scrivi in merito alla inadeguatezza del funzionamento della comunicazione e della relazionalità e, in senso più ampio, della socialità caratterizzanti la condizione autistica.
Se non ricordo male quanto scrive la Frith, nelle persone affette da disturbo autistico sembra non funzionare l'interesse e l'affettività verso il mondo, verso gli altri, non so se verso il futuro. Se questo funzionamento è inadeguato, quali possibilità si hanno per supportare la strutturazione della dimensione autostima e di quant'altro è necessario per permettere di costruire un percorso di autonomia ed autosufficienza, avere interesse a mantenerlo, potenziarlo e non perderlo?

Erano e sono le mie perplessità di fondo nei confronti della metodologia di intervento comportamentista, che tanto in auge era qualche hanno fa, sostenuta anche dalla Associazione dei familiari, ANGSA se non ricordo male. Si impara a fare qualcosa se c'è un investimento affettivo personale.  Altrimenti si implementano automi che, scaricate le batterie, si fermano. Meglio questo che niente, questo insieme ad altro, certo! Ma questo è un nodo, ha ricadute operative, in merito al quale ci si poteva sbilanciare oltre l'impostazione procedurale asettica, divenuta ormai burocratica vulgata corrente.
E quali competenze sono necessarie per dare supporto adeguato? Per sostituirsi ai genitori e vicariare la loro relazione affettiva, educare, seguirne non uno ma più, presidiarne la tutela fisica, avere risorse sufficienti e di riserva per non vivere svuotati al fuori dalla relazione terapeutica, per non perdere la motivazione alla relazione di aiuto, per  non diventare custodi, predatori, aguzzini, carnefici?
Non ti pare che chi dà ostentazione del proprio sapere dovrebbe farsene carico e mettersi in gioco per affrontare questi nodi?

Il mestiere di genitore è il più difficile: più è forte il legame più è complicato il percorso che porta al taglio del cordone ombelicale. Credo  si tratti, il più delle volte, di un taglio subito.
Anche educare è un mestiere difficile, anche con  persone normodotate. Che cosa possono mettere in gioco  gli operatori di prima linea per poter sostenere entrambi i compiti con efficacia? Hanno alle spalle una formazione ed un training specialistico adeguato di natura psicologica e pedagogica? Hanno  conoscenze teoriche sufficienti per affrontarli e portarli a termine? Hanno un addestramento sufficiente per stare “a fianco” senza farsi male, fare male, prevenire che gli altri si facciano male? Esistono scuole di alta formazione che formano e ricercano su tali tematiche?
Avendo utilizzato il termine ricerca, vengo al secondo punto. Invochi, giustamente,  interventi fondati su evidenze, vale a dire su prove scientifiche di efficacia.
In ambito clinico la produzione di evidenze scientifiche è qualcosa di metodologicamente strutturato grazie ad una consolidata ricerca applicata in relazione alla efficacia dei trattamenti farmacologici, degli screening, delle procedure diagnostiche. Di recente, il tentativo di estenderla  anche agli interventi riabilitativi ed agli strumenti valutativi, con risultati ancora da consolidare. Di difficile estensione alle discipline psichiatriche, i cui interventi si caratterizzano per essere non solo di natura farmacologica,  “ per fortuna!!!” aggiungo.
Nell'ambito degli interventi di competenza psicologica, pedagogica e sociale come si producono le evidenze? Come sono accessibili? L'accessibilità è pari a quella disponibile in ambito medico?


Sono questi i punti di domanda che pongo agli esperti. È troppo? È niente?

3 commenti:

Anonimo ha detto...

I temi posti dal dottor Fera sono indubbiamente stimolanti e"costringono" noi genitori, ma io credo che lo stesso valga per associazioni e operatori del settore, a una seria riflessione. Ho molto apprezzato il carattere scientifico di alcuni passaggi. Fabrizio

Unknown ha detto...

Desidero ringraziare il dottor Fera per i suoi due interventi, importanti per la metodologia che li sottende, e per i riferimenti bibliografici forniti a tutti quelli che, in varia misura e da prospettive diverse, si stanno confrontando su questo blog di Gianfranco che ne risulta sicuramente arricchito.

Anonimo ha detto...

Da mamma di un adulto autistico dico grazie al dottor Fera. Lui rappresenta un'eccezione, i medici - la gran parte - continuano a pensare che l'autismo si affronta solo con gli strumenti della malattia mentale. E per quanto riguarda i tecnici, che curano la parte educativa, raramente li ho sentiti prendere pubblicamente le distanze da questa becera interpretazione. Le associazioni hanno un progetto? Se si mi piacerebbe sapere quale. Silvana, dalla provincia di Arezzo

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